Critica

Tiziana Casagrande

per IMPRONTE DELLA MEMORIA
La mostra di Silvia Battisti a Feltre, nel polo bibliotecario feltrino, è una sorta di ritorno alle origini, nel solco del passato: è di per se stessa un ritrovare le “impronte della memoria”. L’artista è nata infatti a Sovramonte, dove ama ritornare nel periodo estivo e, mi ha confessato, godere del silenzio delle nostre montagne, scandito solo dallo scorrere dei corsi d’acqua.
Le vicende di una vita non facile, segnata dalla morte del padre durante la seconda Guerra Mondiale, e una caparbia passione per l’arte l’hanno portata, alla fine di un lungo percorso, a vivere nel Milanese, a Cinisello Balsamo.Dopo il diploma di maturità artistica all’Accademia di Belle Arti di Venezia, dove ha frequentato anche un corso con il maestro Giuseppe Santomaso, ha conseguito il diploma di scenografia all’Accademia di Belle Arti di Brera con la tesi “Oskar Schlemmer e il teatro astratto”.  Ha vissuto a Zurigo e a Varsavia dove ha seguito un corso di cinematografia.

Il suo modo di esprimersi è stato grandemente influenzato dai soggiorni in queste città e in generale dall’arte nordica. A Zurigo amava visitare spesso la Kunsthaus ammirando, tra l’altro, i capolavori di Pierre-Auguste Renoir, Paul Klee, Georges Braque, Alberto Giacometti.

All’università di Gerusalemme ha seguito un corso sul pensiero ebraico ricevendo una profonda suggestione grafica della scrittura ebraica. Nel 1992 ha ricevuto la medaglia d’oro per il disegno nel concorso internazionale di disegno e pittura della città di San Remo. Ha insegnato materie artistiche fino al 1999. Dal 1970 partecipa a mostre collettive in Italia ed Europa. L’impegno quotidiano e costante di Silvia Battisti con la pittura è quindi ultra quarantennale. Come ha osservato Cinzia Bollino Bossi dalla gestualità informale ed espressionista delle opere degli anni settanta l’artista è poi approdata a una astrazione geometrica tesa a misurare e a calibrare lo spazio e il colore”.

All’interno delle campiture cromatiche, tra gli anni Ottanta e Novanta, sono apparse le prime lettere ebraiche, già utilizzate per il loro valore figurativo ed evocativo piuttosto che per il valore fonetico e semantico.
In seguito sono comparsi materiali eterogenei, soprattutto il ferro, per l’idea di concretezza e stabilità che gli è insita. L’unione tra oggetti, cose materiali, quotidiane e pittura nell’opera della Battisti trovano un preciso antecedente nei combine-paintings di Robert Rauschenberg, ma anche nei lavori di Alberto Burri dal quale lo stesso Rauschenberg fu influenzato.

Tali oggetti usati come supporti, ma anche come mezzi per travalicare, con il loro aspetto, la dimensione piatta della tela, per dare consistenza all’opera attraverso la profondità, invocando l’esperienza tattile e quindi un approccio sinestetico, richiamano il quotidiano, l’hic et nunc, ma anche precisi momenti del passato, quasi sempre legati all’esperienza autobiografica e al vissuto della nostra artista. In un certo senso l’oggetto trovato o il frammento rappresentano una sorta di chiave capace di aprire i cassetti della memoria, dischiudere varchi nel tempo, facendo rivivere emozioni.

Di fronte a questi apparentemente banali oggetti potremmo chiederci con Montale “ Il varco è qui?”, è forse questa la miccia che innesca il ricordo, questo il barlume che indica la via per capire il mistero dell’esistenza e delle cose?

In alcuni quadri gli oggetti sono particolarmente carichi di implicazioni simboliche. Si prendano, ad esempio Musica per lo strumento, La linea rossa, Una grande tristezza e Il resto della falce dove troviamo pezzi dell’attrezzo agricolo impiegato per la fienagione, ma associato nell’immaginario collettivo alla morte. Attributo di Saturno, il dio romano dell’agricoltura e di Crono, l’antico dio greco con il quale viene identificato, dal quale la figura allegorica del Tempo ereditò questo strumento che, come le cesoie di Atropo, serve a recidere la vita dell’uomo. In altri sono materiali di assoluta banalità che, grazie, alla composizione cromatica e alle ricercate simmetrie assumono connotazioni semantiche proprie come le grucce da lavanderia in L’assenza e Percezione del dolore. Molto usati i versatili, sottili tondini di lucido metallo impiegati a delimitare spazi, a suggerire le canne di un muto organo in Lo strumento del silenzio o la silhouette di uno strumento a corde in Evento, ma anche ad evocare in opere come Il freddo e Sedimenti del tempo cuciture o, meglio, suture chirurgiche se non raffigurazioni di catene di DNA.

Perché a Silvia Battisti, come donna, interessano tutti i processi più misteriosi del corpo, quelli psichici, di percezione dei sentimenti e quelli biologici, di generazione della vita e della nascita.

Ecco dunque rappresentare in Energia per la vita la cellula uovo con il suo carico di potenzialità e domande: riuscirà a diventare un individuo e che tipo di persona sarà nella nostra società? Accanto all’embrionale sviluppo della vita, all’altro capo della parabola esistenziale, Silvia Battisti si sofferma sugli ultimi istanti che precedono la morte. Nelle opere In fondo al mare, nate in occasione di una iniziativa de La permanente di Milano, della quale è socia, per ricordare i migranti scomparsi in mare, la pittrice ha infatti voluto condensare i pensieri e le sensazioni di chi sta annegando e sa di essere ormai giunto alla fine. Ha in questo modo rivissuto un’esperienza tragica e posto sulla tela momenti di grande angoscia nei quali ha creduto lei stessa di essere in punto di morte. Ancora una volta il dato biografico si interseca con eventi della società contemporanea della quale la Battisti è una lucida e critica osservatrice.
Ciò che colpisce nell’opera di Silvia Battisti è la quasi costante presenza di lettere e segni grafici che sembrano affiorare dal profondo, apparentemente attraverso un processo di scrittura automatica di impronta surrealistica, e delimitano precisi settori all’interno del quadro. Si tratta di un interesse per la calligrafia maturato precocemente, fin dalle elementari, tracciando le prime asre e nutrito, ancora una volta dall’attenzione per l’antico, dalle iscrizioni epigrafiche viste nei musei, al British Museum, per esempio, dove ha fotografato la stele di Rosetta, pietra di granodiorite che riporta un’iscrizione divisa in registri in tre differenti grafie, geroglifico, demotico e greco. La scrittura ebraica, come si è detto, è la prima ad apparire nelle sue opere. L’interesse fu dapprima rivolto ai vuoti e ai pieni tanto che le lettere erano incise erano incise sulla stesura di pasta acrilica. I segni grafici che vediamo nei suoi quadri non appartengono ad alcun linguaggio parlato: il loro valore risiede nel ritmo che conferiscono alla composizione. Come negli ideogrammi cinesi il riferimento è al movimento del corpo. Vengono in mente le grafie sottili e vibranti, tendenzialmente monocrome di Mark Tobbey, da lui definite white writing, che troviamo anche in alcuni dipinti di Tancredi.

In opere come Tigullo e la pace del 2014, ispirata dal ritrovamento in Israele di pezzi di pietra, l’artista ha inserito i versi del poeta romano “Quis fuit, horrendos primus qui protulit enses? Quam ferus et …!” indice di un profondo interesse per l’antico. Nelle Lettere dal fronte, ispirate alle missive che il padre Egidio Battisti,tra il 1942 e il 1943, scriveva alla moglie dai Balcani, l’artista riscrive frasi, interi periodi inserendoli tra immagini di propaganda, ritagli di giornali, bollettini, vetri rotti con fili di metallo a cucire e sigillare il tutto” perché niente venga dimenticato”.

Al di là di questi casi specifici “le lettere con l’ordine della loro disposizione creano ritmo visivo, non logos”. Una profonda musicalità contraddistingue i lavori di Silvia Battisti che, per sua stessa ammissione, intraprende la creazione di un quadro quasi fosse la stesura di uno spartito,partendo da un “la” che può essere un oggetto,un segno o un colore che, con la sua ispirazione, apre la strada all’irrefrenabile moto dell’animo.

L’artista ricerca l’armonia e l’opera è finita solo quando, raggiunto l’equilibrio, la tempesta dell’anima si placa e cede il posto alla quiete del silenzio.

Il colore di Silvia Battisti è di matrice espressionistica, sviscera le emozioni. Poche le cromie usate: il rosso, colore del sangue e della passione e della rabbia, spesso accostato, come il bianco, in funzione di contrappunto, al nero nella definizione di una contrapposizione visibile, ad esempio in Incomunicabilità e Yin e Yang. C’è poi il blu, omaggio a Renoir, che però richiama Wassilj Kandiskij, Yves Klein senza trascurare la Blue Sinphony dell’antico maestro Giuseppe Santomaso. E ancora l’ oro, il metallo incorruttibile, che taluno ha accostato al sacro, che compare per lo più in elegante contrappunto al nero e al rosso (Quello che rimane e Vibrazioni materiche) oppure, in Oro per il padre, in funzione di monocromo.

Polo Bibliotecario Feltrino 12 settembre 2015

Giorgio SEVESO

per GLI STRUMENTI DELLA POESIA
Non c’è rappresentazione qui, né allusione o evocazione. I segni di Silvia sono, invece, tracce. Sono conseguenze interiori che prendono forma e corpo, come il portato di piccoli sismografi che si incidono sulle strutture e sui colori. Sono ciò che rimane – o ciò che accade – mentre una memoria si tende, e scatta nell’animo dell’autrice il solco silenzioso impresso dal suo gesto sullo spazio attorno, a registrare l’eco di una emozione, a testimoniarne delicatamente la sensibilità marcata e vigile.
Mentre lavora, la nostra autrice sembra infatti porsi in una sorta di stato di sospensione della coscienza, come se guardasse dentro di sé con gli occhi dell’animo socchiusi, e idealmente filtrasse tra le ciglia materiali di sogno e distillati di memorie. Ognuno di questi oggetti/immagine è, pertanto, come una scenografia minima del sentimento che si combina sotto le sue dita in modo si direbbe inconsapevole, quasi una écriture automatique che sgorga da una necessità interiore, da un inconscio imperativo della fantasia e della memoria combinatoria.
E della scrittura stessa, appunto, ha talvolta addirittura l’aspetto e il ritmo, quando tra le pieghe e gli sfondi della composizione emergono, o si inseriscono, segni cuneiformi e vibratili, scribilli elementari variamente combinati e composti, tra il sumero arcaico e l’ebraico, a volte squillanti a volte sordi, sui quali l’autrice “scrive” il ritmo di una comunicazione impervia, impedita, difficile…
Anche qui c’è il senso della traccia, dell’orma lasciata da un accadimento sentimentale che, non avendo ruolo semantico pedissequo, vive invece esclusivamente della sua essenza emozionale, del suo intrinseco valore di segno iconico.
Nella combinazione di impronte e campiture, oggetti e inserimenti, tra fili di metallo e pezzi di falce, semi vegetali e cuciture, graffi e lacerti lignei, si snoda dunque, oggi, l’ormai maturo itinerario di Silvia Battisti, che nell’attraversare i suoi vari momenti e periodi ha sempre trovato, di volta in volta, una personalissima misura d’interpretazione e di travaso delle diverse lezioni dell’arte contemporanea all’interno della propria espressività.
Si tratta di una misura che in ogni brano e momento tiene conto dei molti altri interessi e curiosità dell’autrice oltre la pittura e l’espressione artistica… Una misura ritagliata e vissuta essenzialmente su indizi dell’animo, figure e colori di una memoria poetica interiore, di volta in volta tenuta a fissare, a fermare, a estrapolare dallo sgocciolamento del quotidiano i luoghi e le tracce sedimentate di ogni possibile fantasticazione lirica.

Pretesti, dunque, per il lento e minuzioso gesto quasi alchemico del combinare e mettere in immagine la propria fantasia, quando essa sia appunto intesa nel senso di un traslato del quotidiano, elaborazione immaginifica di un assorto materiale emozionale vissuto con occhi e cuore quanto più possibile semplici, “ingenuamente” incantati.
Come sospesi magicamente sull’orlo di un tenero e sorprendente naïf, dunque, questi suggestivi e diversi modi espressivi di Silvia Battisti potranno suggerire, anche, una sorta di visionarietà descrittiva, nel senso generale di una poetica del contemplativo giocata con naturalezza, con semplicità e sincerità, quasi per una sorta di permanente, e talvolta ironica, chiamata in causa della malinconia e dell’inquietudine esistenziale, così come accade, ad esempio, per il ciclo degli “orologi”, usati come catalizzatori concettuali dell’oggettività fenomenica in cui viviamo immersi e come rovesciamento quasi grottesco della loro seriosità.
Si tratta di una sorta di spleen sentimentale, di un tono di silenzi allusivi dell’immagine che in qualche modo trasformano la creatività e l’invenzione estetica, la rifondano in una dimensione in cui ogni segno e ogni forma non sono più solo se stessi e assumono, invece, il valore di un sottile slittamento emozionale dal particolare al generale, gonfiandosi delicatamente, impercettibilmente di un valore di metafora.
E ciò accade perché tale tono, tale melanconia creativa si fonda, dicevo, su un’opzione di lirismo e, insieme, di naturalezza, di semplicità comunicativa che l’autrice ricava dal fondo del suo cuore e della sua sensibilità.
Ciò che la nostra artista intende infatti dirci con l’insistìta ripetizione dei suoi soggetti (i lacerti cromatici degli “omaggi” a Renoir, gli orologi/catalizzatori di cui dicevo, i vetri infranti che coprono e proteggono i brani delle lettere paterne dal fronte, le vibratili campiture improbabilmente alfabetiche dei suoi gentili geroglifici…) è proprio quanto in fondo risultino, sempre, “semplici” la profondità e la pregnanza poetiche delle immagini.

Non occorre tradurle, occorre solo sentirle.

Più esse risultano familiari, lineari, prive di artificiose complicanze, più esse divengono semplicemente eloquenti, semplicemente liriche.
In fondo, era proprio questa l’ambizione intima di quel Bauhaus che Silvia ha molto studiato e amato in gioventù: il portato definitivo di libertà che Paul Klee ci ha lasciato.
Come per il lavoro di un alchimista minuzioso e metodico, ma attento anche a non disperdere ogni minimo impulso e sommovimento dell’istinto e dell’intuizione casuale, ecco che sincerità e autenticità, memoria e sentire emozionato sono i materiali con i quali si alimenta l’immaginario della nostra pittrice. E grazie ai quali, nella metafora larga consentita dalla suggestività del gesto creativo, la realtà del tempo nostro, con le sue contraddizioni e le sue incongruenze, ci appare insieme così dolce e così crudele, così “semplice” e al tempo stesso così complessa e inarrivabile, al punto che si ha l’impressione di poterla compiutamente comprendere, come qui, solo con gli strumenti della poesia.

Alessandra MONTALBETTI

per  LETTERE DAL FRONTE
“Dimenticare! E’ uccidersi, è rinunciare a quell’unico bene che possediamo realmente e impreteribilmente, al passato. Chè se si potessero dimenticare soltanto le gioie, forse l’oblio potrebbe essere giustamente desiderato; ma dei nostri dolori noi siamo superbi e gelosi, noi li amiamo, noi li vogliamo ricordare. Sono essi che compongono la corona della vita”. ( tratto da Fosca di Igino Ugo Tarchetti).
Silvia Battisti è da molti anni interessata alla memoria, alla ricostruzione della memoria: si è assunta il complesso compito di ripercorrere il nostro passato più doloroso per non dimenticarlo, ed è una rarità, nel nostro momento storico, che frequentemente non ama, non vuole, non sopporta di ricordare: già nel 1967 Guy Debord, con in suo saggio dedicato alla società dello spettacolo, aveva sottolineato come, inavvertitamente e giulivamente, saremmo arrivati ad una falsa memoria del passato, costruita artificialmente dalla televisione, così da poter giungere ad una nuova e forse perniciosa costruzione della storia, che altro non è che la distruzione della verità.
Susan Sontag, nel suo saggio Davanti al dolore degli altri del 1993, ci ha dimostrato che, ormai, solo con il supporto fotografico, con il cosiddetto materiale mediale, la guerra diventa reale, anticipando di ben otto anni la più grande tragedia spettacolarizzata: l’attacco alla Torri gemelle di New York, perché l’uomo che vive pienamente il secolo profondamente mutato prima dalla scoperta dei fratelli Lumiére e, poi, dall’invenzione della televisione, è quasi assuefatto alle immagini ed ha bisogno di certezze, perché, ormai, con il passato che non è più “visibile”, si hanno legami sempre più deboli, forse impercettibili.
Ecco, allora, l’opportunità ed il nostro dovuto ringraziamento al recente lavoro di Silvia Battisti, che non ha avuto timore di ricordare, anzi ha affondato le mani nelle lettere scritte dal proprio padre dal fronte, durante la Seconda guerra Mondiale, e non le ha silenziosamente e devotamente rilette, non le ha riposte in un cassetto dove l’oblio dell’affetto filiale le avrebbe conservate, ma le ha “tradotte”, in una serie di combine painting di raushenberghiana discendenza, con i quali l’artista le espone affinchè tutta la società abbia la grande opportunità di riflettere.

Le lettere sono accompagnate da un’attenta ricerca sui materiali informativi dell’epoca, se si informazione si può parlare, e quanto stridìo tra le piccole lettere vergate a mano, con quella che la scuola di quegli anni imponeva come materia, la calligrafia, nel senso autentico del termine, e le forti immagini della propaganda; non a caso, l’artista ha sentito la necessità di riscrivere alcune frasi del padre, non solo per appropriarsene maggiormente, proprio per il senso medesimo della scrittura, ma per allontanarle dalla carta da lettere e trasformarle in qualcosa di più universale, come se in questo modo potesse passare dal microcosmo familiare al macrocosmo mondiale: quanti soldati scrivono a casa, alle loro famiglie, e come sono sempre nuovi i loro sentimenti e il loro strazio!
Ma a Silvia Battisti tutto ciò non bastava: il suo ruolo sociale non poteva ritenersi assolto ed ecco aggiungere i materiali estranei ed esterni, quelli che avevamo già incontrato nella sua precedente produzione e che la segnano indelebilmente : questi ancor più colgono il senso drammatico della motivazione più profonda dell’intera opera, nei vetri a volte intatti che sembrano congelare questo dolore per affidarlo ad ognuno di noi, oppure nei vetri infranti, come se le parole uscissero dirompenti, come un fiume in piena pronto a rompere gli argini, quasi a modificare geneticamente il silenzio delle parole; e filo, tanto, tantissimo filo di ferro che si avvolge, che si perde in nodi, che tenta di collegare ciò che si è spezzato, così come le lettere del padre non solo volevano mantenere un contatto con la famiglia, con la casa, con la normalità, ma soprattutto cercavano una risposta alla solitudine ed alla mancanza di controllo della situazione che si viveva, così come ora l’artista cerca di ricondurre tutto il dramma in un formato contenibile apparentemente, ma pronto ad uscire dal perimetro geometrico.
Se John Lennon poteva, e grazie alle riproduzioni sonore, può ancora cantare il suo ottimistico ed augurale inno “War is over”, noi non possiamo non citare qui i dipinti di Zoran Music, che negli anni Settanta ripercorrevano il dramma dei campi di concentramento e venivano tragicamente intitolati “Non siamo gli ultimi”: e la visione di questi lavori di Silvia Battisti ci costringe ad esercitare una catacresi per ascoltare con attenzione la potente voce di queste lettere.

Giovanni TRIMERI

per IMPRONTE DELLA MEMORIA
“I miei segni sono ritmici. Il presente mi riporta al passato, il presente e la memoria convivono. Tra l’altro, essendo donna, tutto passa nel corpo nella sua globalità e io lo traduco in forme…”

Sono queste alcune brevi indicazioni di lettura che l’artista Silvia Battisti ci propone per le sue opere. L’emozione del presente diviene breccia per far riemergere dalla profondità ricordi, gioie e paure assopite che poi trovano immagine in opere guidate da un afflato ricco di armonia e vigore.
Ogni composizione è precisa, strutturata rigorosamente, anche qualche elemento di casualità potrebbe entrare nell’opera, anche allora esso va ad occupare un posto preciso.
Ma in questo estro artistico siamo lontani dall’insinuarsi del freddo di certe opere programmate che ben conosciamo, anzi,

l’uso di colori e grafie, le studiate ed armoniche forme e linee compositive fanno delle opere di S.B. delle vere e proprie micro narrazioni

in cui il presente esponendo se stesso ricostruisce evocandoli e immagini e sensazioni ormai nella memoria, come premesso sopra.

Così ogni lavoro diviene espressione di immediatezza rafforzata da un ricorrente cromatismo deciso con un colore rosso imperante che spesso si scontra con il nero per evocare paura, grida, incomunicabilità, ma anche spazi infiniti, pensieri non circoscrivibili in una semplice definizione o interpretazioni di vissuti e visioni del presente e del passato. Talvolta è una narrazione di forte impegno civile, che sovente viene rafforzata con oggetti, frammenti, tessiture, sovrapposizioni che ricordano le bende strappate da ferite.

In tutto questo, un ruolo importante assume la calligrafia che emerge come reperto, ma è un fondamentale elemento compositivo. E’ una calligrafia che ha frantumato l’alfabeto e ora ne salvaguardia quei frammenti, lo scheletro di un alfabeto o, per dirla con Munari, “la scrittura illeggibile di un popolo sconosciuto”. Le parole sono divenute una traccia, solchi in cui si conservano i semi essenziali del raccontare e i tanti reperti sono costituiti, per lo più, dalle medesime lettere. Una testimonianza muta che pare contenere l’implicita volontà di salvaguardare la scrittura calligrafica, non solo per mero antagonismo con quella prodotta mediante altri modi e mezzi, ma per evocarla e lanciare un personale segnale di allarme per l’abbandono quotidiano che subisce la scrittura amanuense.
Questo fare artistico si sviluppa in opere che frequentemente non hanno un titolo poiché pare di capire che la complessa profondità del dettato della nostra Artista impedisca una semplificazione e quindi l’attribuzione di una univoca informazione di lettura.
Si potrebbe altresì interpretare che queste opere rappresentano un “continuum” e quindi sono dei tasselli di un lavoro in corso la cui conclusione è sempre rinviata, come la storia della propria vita.
Altri quadri, invece, sviluppano in sequenze delle situazioni quotidiane ben conosciute: l’incomunicabilità, l’assenza, la percezione del dolore, l’affettività… Silvia Battisti in questo modo ci fa partecipi del suo universo e ci espone la sua rappresentazione di aspetti del vivere che più la coinvolgono e che oggi sembrano essere rivolti al sociale e a tante circostanze drammatiche della nostra società.

Alessandra MONTALBETTI

Il rumoroso silenzio dei segni
In questo intervento non troverete la biografia di Silvia Battisti, né accenni alla sua preparazione o alla sua formazione, quello che vorrei, è riuscire a descrivere che cosa può accadere nell’osservare i dipinti di questa artista.
Al primo sguardo, nelle sue opere, è semplice leggere un primo livello, un primo approccio “superficiale”, perché i nostri occhi scorrono sulla materia, che è ricca, sensuale e corposa, rimangono imprigionati e le mani sentono quasi il bisogno fisico di accarezzare.
La dimensione delle opere dell’artista non è imponente e, così, ancor più ci illudiamo di dominare le sensazioni cui ci muovono queste piccole “tele”, che possiamo contenere nelle nostre mani.
Poi, pian piano, se abbiamo la fortuna di avere intorno e dentro di noi un po’ di silenzio, ed è quasi impossibile, nella nostra vita frenetica, ma è necessario in alcuni momenti, ecco sorgere un dubbio, insinuarsi un piccolo tarlo, che ci obbliga a fermarci ed a tornare indietro e riguardare con più attenzione queste opere: osserviamo che,proprio questa superficie, la medesima che ci aveva attratto per la sua ricchezza, si trasforma in scabra, corrosa, interrotta, incisa da migliaia di piccoli segni, che si fermano, trovano ostacoli, diagonali irte verticali inattese, mai orizzontali, che, nella loro calma, potrebbero riportarci là da dove eravamo partiti, e rassicurarci.

Nel rettangolo della tela si aprono dimensioni impreviste, quasi scoperchiando profondi baratri davanti a noi, come se l’iniziale certezza di quella bellezza, non fosse che qualcosa di effimero, di estremamente illusorio: l’artista lo sa, profondamente, conosce i tranelli e ce li introduce, perché anche noi possiamo sentire l’ebbrezza della prima illusione non disgiunta dall’incredibile crudezza della realtà e, squarciato il primo silenzio, avvertiamo un urlo lontano che si avvicina sempre di più e va ingigantendosi.
Ed ecco i segni, precisi, che si intersecano, che si rincorrono, quasi alla ricerca di un nuovo alfabeto, con il quale si tenta, si vuole comunicare non un nuovo significato della vita, ma quello antico, quello di sempre, quello che noi, tutti i giorni, abbiamo perso e forse potremmo ritrovare se solo ci fermassimo, proprio come si è fermata l’artista a meditare, a ponderare, a sognare, forse, su quanto il nostro linguaggio oggi sia privo di significato, di quanto abbia perso la sua fondamentale funzione, perché riconosciamo i segni, ma non gli attribuiamo più il medesimo senso.
E, mentre potremmo ritrovarci brutalmente davanti ad una concezione pessimistica della vita, dell’Uomo e del suo comportamento bestiale, nelle guerre e nell’orrore che da esse deriva, l’artista ci stupisce nuovamente, perché, nella sua profonda umanità, ci pare quasi indicare se non una strada, certo almeno un sentiero che potrebbe ancora recare un lieve ottimismo.
Si veda, ad esempio, “Il canto senza voce” ed ancor più nel “Il rosso dell’infinito”, dove possiamo quasi ancora sentire lontana la voce di Leopardi che compone il suo Infinito: abbiamo davanti ai nostri occhi una siepe minima, è vero, ma così intricata e cupa da chiuderci in uno spazio claustrofobico, dal quale scopriamo di poter uscire, perché si ferma, non arriva a riempire la totalità della superficie, oltre la siepe i nostri occhi vedono un cielo rosso, intenso, appassionato, che stimola i nostri pensieri e reca nuovi sogni. Non sembrano far rumore, le opere di quest’artista, perché da sempre, come ci insegna la filosofia zen, è solo nel silenzio e nella dimensione ridotta, che si possono sentire le voci di chi, senza fragore, ci guida con nuovi segni alla riscoperta della nostra stessa anima: ed allora tocca a noi azzerare tutto il fragore che ci circonda perché,come ci indica Shakespeare, “è solo di intelligente Amore udire con gli occhi” (sonetto 23).
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